Mare di plastica, è allarme rosso «Nel 2050 più spazzatura che pesci»

ALLA FINE dello scorso settembre sul litorale di Licola, in Campania, i volontari impegnati nella pulizia della spiaggia trovarono un gran numero di oggetti decisamente insoliti: erano falli di plastica portati a mare dalla piena di un fiume, probabile rifiuto mal smaltito di un negozio di sex toys. LA NOTIZIA può far sorridere ma dà la misura di qual è il problema dell’inquinamento degli oceani. In mare finisce tutto, ma proprio tutto. E tutto si conserva, se non biodegradabile: perciò le concentrazioni di plastiche sono massicce e in costante crescita; i falli di Licola, come tutti gli altri oggetti finiti in mare, diventeranno microplastiche una volta corrosi dalle acque. A scorrere una qualsiasi raccolta di immagini sul web si resta sconvolti: spiagge in cui la sabbia è invisibile tanti sono piatti, bicchieri, sacchetti, ciabatte, oggetti vari di ogni colore portati dalle onde; isole galleggianti di plastiche agglomerate che vagano negli oceani; tartarughe soffocate dai sacchetti abbandonati; imbarcazioni che fendono specchi di mare coperti di oggetti. Si sprecano le iperboli che cercano di denunciare il problema e richiamare l’attenzione generale. OCEAN CONSERVANCY sostiene che fra otto anni ogni tre tonnellate di pesce ci sarà una tonnellata di plastica; la fondazione Ellen MacArthur prevede che nel 2050, se nulla cambia, negli oceani ci sarà più plastica che pesce; un gruppo di ricercatori ha di recente definito il Mediterraneo «una zuppa di plastica», e così via. Si stima che la densità di microplastiche oscilli fra i 25mila pezzi per chilometro quadrato nella porzione meridionale dell’Oceano pacifico ai 300mila della parte settentrionale; anche per l’Atlantico siamo nell’ordine delle centinaia di migliaia di frammenti. Il mal di plastica è un flagello col quale dovremo convivere a lungo. L’attacco agli ecosistemi e agli animali marini è un’evidenza, ma gli effetti sistemici non sono del tutto prevedibili e resta da chiarire in che modo e in che misura l’ingestione di nano e microplastiche da parte degli animali marini sia destinata a nuocere alla salute umana. INTANTO si sta cercando di correre ai ripari. Il parlamento italiano nelle settimane scorse ha deciso il divieto di produrre cotton fioc non biodegradabili e di usare microplastiche nei cosmetici; è stato anche introdotto l’obbligo di usare sacchetti compostabili (con almeno il 40% di materia prima rinnovabile) per frutta e verdura fresca, ma continua a sfuggire alla presa del legislatore la fetta più grande degli inquinanti, ossia quell’enorme insieme di imballaggi e supporti – dal packaging al sacchetto della spesa – che accompagna la vita, solitamente breve, delle merci. TUTTI concordano sulla necessità di abbattere decisamente l’uso delle plastiche e vari programmi internazionali sono in corso, ma un cambiamento radicale è difficile, perché colpirebbe interessi industriali molto forti e renderebbe evidente che il mal di plastica è figlio diretto e legittimo di un sistema di vita e di consumo che nessuno, o quasi nessuno, osa mettere in discussione. La prospettiva di un’economia e di una società che si avvicini al traguardo ‘plastica zero’ dev’essere ancora digerita.

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